Rimango incinta dopo mesi e mesi di tentativi. Dopo aver reso l’atto più
bello un’unione quasi forzata per realizzare un sogno. Niente nuvole e
lenzuola. Ma non ci importa perché amarsi significa anche questo. Sacrificare
qualche cosa per realizzare un desiderio.
I ricordi delle visite, le lacrime versate e
le ansie del cuore scompaiono quando sul test vedo le due lineette. La cosa più
bella che io abbia mai visto. Il nostro piccolino è pronto a vivere con noi. Ho
finalmente trovato il mio posto nel mondo. E così comincio la mia vita da
futura mamma. Niente verdure crude, niente pesi da portare, niente
affaticamenti. Mio marito non mi fa fare niente. Ed è un far niente
meraviglioso. Cominciano le nausee e i giramenti di testa. La prima volta che
rimetto lo chiamo con le lacrime agli occhi. Sono felice. Il mio piccolo c'è e
si fa sentire. E ogni volta che corro in bagno sono "contenta". Non esco quasi di
casa, le temperature estive non me lo permettono, ma non mi pesa. Con la mano
sulla pancia posso affrontare qualunque cosa. Anche la noia, così dolce da
mozzare il fiato.
Passa il tempo, sono coccolata e viziata. La pancia cresce e
con lei i nostri progetti. Si comincia a parlare di vestitini, seggiolini,
addirittura dell'asilo. Nessuna ombra può smorzare la nostra gioia. Discutiamo
sui nomi. Se è un maschio siamo sicuri sarà Edoardo, se è una femmina abbiamo
ancora qualche dubbio. Ma io sento che è un maschietto. È così è stato: il
nostro Edoardo stava per arrivare. Mi fotografo la pancia, mi arrabbio perché
non mi entrano più i pantaloni. Ma è un' arrabbiatura tenera, di quelle che le
donne sfogano per farsi dire che con la pancia sono ancora più belle. Poi
arriva il primo calcetto. Un brivido mi attraversa il petto e si conficca nel
cuore. È lui, è il piedino del mio amore. Lo dico a mio marito e lui piange.
Sempre alla stessa ora, come un appuntamento, si muove, cambia posizione e mi
dice “Ciao mamma ci sono!”.
Poi arriva il 29 ottobre e in un attimo, il tempo di un respiro, la
nostra vita si trasforma in un incubo. Il nostro sogno si spezza quando mi
viene detto: “c'è un problemino”. Da lì comincia il nostro calvario. E' qui che la nostra esistenza viene tagliata in due. D'ora in poi ci saranno solo più un prima e un dopo.
Il 29 ottobre è il giorno della morfologica. Appuntamento alle 18. La
notte prima non dormiamo. Non vedo l’ora di sapere il sesso. Non immagino che
oltre a quello avrei saputo ben altro... Mi vesto, faccio la solita foto di rito
davanti allo specchio e salgo in macchina, sempre attenta a non fare movimenti
bruschi. In sala d’attesa sono agitata, ma non ho tempo di calmarmi perché la
dottoressa ci chiama. Mi spoglio, per la prima volta senza vergogna. Vedo il
piccolo, dorme. È un maschietto e io piango di gioia. E’ bellissimo. La manina
sulla fronte, chiusa a pugno. La stessa che poi si avvolgerà alle mie dita. Poi
sento il suo cuore, batte fortissimo. E il nostro con il suo. Poi vedo che la
ginecologa insiste sul cuoricino, mi dico che è normale, ma dentro forse
capisco che qualcosa non va. Per paura di sentire risposte, sto zitta. Mi
rivesto. C'è silenzio, ma ancora una volta mi dico che è normale. Mi siedo, la
dottoressa dice che il piccolo sta bene, i valori sono nella norma.... Ma “c'è
un piccolo problema”. Quelle parole sono diventate il mio incubo. Ancora oggi
mi risuonano dentro e mi tagliano a metà. Il piccolo ha un problema al cuore.
Probabile Tetralogia di Fallot. Non so che cosa sia, non voglio saperlo. Il mio
amore sta bene e lei si è sbagliata. Ma purtroppo non è così e la mattina dopo
abbiamo appuntamento in ospedale per approfondimenti.
Continua la discesa all’inferno.
Non dormiamo e alle 8 siamo in ospedale. Altre ecografie confermano la
malformazione. Anzi il quadro peggiora. Il piccolo Edoardo ha un Truncus, vive
bene solo dentro di me e io avessi potuto l’avrei tenuto per sempre nel mio
grembo. Faccio l’amniocentesi. Sono un sasso, mi muovo come se fossi un
burattino. Non sento male. Niente. Il dolore è tutto nel mio cuore. Alle 13
visita dalla cardiologa che conferma la patologia. Appuntamento dopo una settimana
per un’altra visita. Torniamo a casa con la morte dentro. Piango, mi dispero e
mi arrabbio. Faccio anche una cosa terribile. Per due giorni non mi tocco la
pancia, quasi io voglia abituarmi alla sua possibile assenza. Poi però sento
che Edo ha bisogno del mio calore. Mi abbraccio la pancia e non la mollo più. I
giorni trascorrono veloci, come se vivessi la vita di qualcun altro. La casa è
sempre piena di gente. Non voglio stare da sola. Anche se sola non sono.
Si
comincia a parlare di possibile interruzione. In tutto questo tempo non sono
mai riuscita a pronunciare la parola aborto. Ancora adesso è come una lama che
mi taglia in due. Giovedì 8 i medici confermano la malformazione. Una settimana
dopo il nostro amore non c’è più. È un angioletto. Abbiamo scelto per lui: non
abbiamo voluto vivesse una vita che noi non avremmo mai voluto vivere. Comincia
così il lungo saluto. Lunedì 12 ho tutte le visite. Poi quelle terribili
pastiglie da ingoiare che si mescolano alle mie lacrime, al mio strazio. Ad
aiutarmi la mia famiglia e il sorriso buono di medici e personale. Mercoledì 14
il ricovero. Mi danno un letto. I miei movimenti sono meccanici. Mi spoglio e
dopo un po' l’ostetrica mi mette la prima candeletta. L’incubo continua. E al
dolore del cuore si unisce quello fisico. Le prime contrazioni, la flebo, l’epidurale
in una stanza fredda, dove un’altra donna si sta preparando al parto. Non so nemmeno più
come mi chiamo. Un’altra candeletta. Il dolore aumenta. Alle 15 comincia il travaglio.
Alle 16.10 non nasce il nostro amore. Mio marito è con me, mi dà forza, mi
stringe le mani, mi dice che sono bellissima. Che Edoardo è bellissimo. Davanti
a me l’ostetrica, una ragazza dal cuore e dal sorriso dolcissimo. La stessa che
dopo ore di lavoro prima di andare a riposare mi viene a salutare. Mi parla con
tenerezza, mi dice di lasciarlo andare. Poi il silenzio. Rivivrei quel momento
tutti i giorni, perché in quell’istante l’ho sentito vicino come non mai. Poi
il raschiamento, l’anestesia totale. Non capisco più niente. Mi ritrovo a
letto. I miei cari attorno. La mia pancia drammaticamente vuota. La notte mio
marito mi stringe forte. Non chiudiamo occhio. Qualche complicazione dopo,
arriva l’alba. Altre visite e controlli. La mia magnifica dottoressa si prende
cura di me. Posso andare a casa. E solo ora mi rendo conto che inizia il vero
calvario. Il vuoto che sento è indescrivibile. La mia pancia c’è ancora, l’istinto
è sempre quello di accarezzarla. Ma ogni volta che lo faccio la realtà mi
prende a schiaffi in faccia. Quando ci richiudiamo la porta alle spalle ci
sentiamo smarriti. Persi. Vuoti. Incredibilmente soli. Da quel momento la
parola che meglio ci descrive è VUOTO. Un vuoto che non so come colmare.
La mia
storia è la storia di tante donne che hanno messo al mondo il loro bambino e
non hanno potuto abbracciarlo. Stringerlo al petto e sentire il suo respiro
fondersi con il proprio. Non hanno potuto sfiorarlo, accarezzarlo, dormire
accanto a lui. La mia storia si intitola aborto terapeutico. Una
contraddizione, un dramma che lascerà un segno per sempre. Uno strazio che apre
un vuoto incolmabile nel cuore. La mia storia è quella di un abbraccio mancato.
Di un passo verso la felicità cancellato da un alito di vento crudele. L’unica
cosa che sento è la sua assenza. E ritorno a piangere sulle pance delle altre
donne e torno a dover sopportare il fardello della mia così tristemente vuota.
La mia pancia che prima dava vita, ora è piatta, morta, terribilmente sola. La vita
mi ha preso in giro, mi ha dato e poi mi ha tolto. La vita mi ha preso a pugni.
Ora è tempo di piangere. E’ tempo del saluto. Un saluto che non finirà mai.