martedì 26 febbraio 2013

Lascerò che tu mi vinca


Il tempo passa. Scorre impietoso. E io me ne accorgo per quel giorno che non vivrò mai. Per quella data che passerà come niente fosse. Manca poco ormai e io non so davvero dove troverò la forza per farla trascorrere. Per farmela scivolare addosso come fosse un qualunque giorno.

Un giorno come un altro. Uguale a quello appena trascorso, identico al domani. Potrei dormire. Potrei ma non ci riesco. Potrei uscire, ma non saprei dove andare. Starò ferma, disarmata. A vivere tutto il mio dolore. A dargli un volto, un corpo. Un’anima. Per poi prenderlo a pugni, e mescolare la rabbia alla sofferenza. Cercherò di andare avanti, nonostante il vuoto tenti costantemente di risucchiarmi con le sue lusinghe. O minacce. Non so.

Ti aprirò la porta e lascerò che tu mi vinca.

venerdì 22 febbraio 2013

Lo smalto rosso non mi sta bene


Lo smalto rosso non mi sta bene. Ogni tanto mi sfida e io cedo. Ma tutte le volte vinco io: lo stendo, mi guardo allo specchio, gli faccio fare un giro tra le mura di casa e poi lo tolgo. Con forza. Perché non mi calza bene. Non fa per me.

Lo smalto rosso è troppo. Non riesco a portarlo con disinvoltura. Invidio le donne che lo indossano come fosse naturale. Su di loro mi piace. Ma addosso a me suona stonato. Come se andassi in giro con una maschera troppo piccola, incapace di coprire tutto il mio volto.

Lo smalto rosso per me sono tante cose. Sono le parole che vorrei dire ma che non pronuncio. Sono i gesti che vorrei fare ma che rimangono bloccati in me. Sono quella forza che tante volte viene a mancare ma che cerco di nascondere con un sorriso forzato, in una lacrima che non sfocia. Lo smalto rosso è quella trasgressione che non mi si addice. E’ quell’urlo che non mi consento di fare uscire. Sono quelle ali che ripongo nel cassetto.

Lo smalto rosso è un paio di scarpe che mi chiede di ballare. E’ un amico che mi chiede di uscire. E’ una voce che mi sussurra all’orecchio di ricominciare. E’ un invito che non voglio ricevere. E’ la pagina successiva. E’ una porta aperta.

Forse un giorno. Per ora preferisco lo smalto rosa.

martedì 19 febbraio 2013

Quando è il viaggio ad essere importante




Riprendere in mano la propria vita, sapendo che niente sarà più come prima. Voler riscoprire la bellezza della quotidianità, degli attimi che passano senza lasciare apparentemente segno.  Perchè quando vengono a mancare ti senti un po’ spersa, gettata in quella calma che non ti appartiene. In una vita che non è più la tua. La sveglia presto la mattina, la colazione con un libro davanti, la doccia, la corsa al lavoro, le futili lamentele, le chiacchiere davanti ad un caffè, il telefono che squilla, un profumo, il ticchettio di una scarpa nel corridoio…E sentirsi stanca la sera, tanto da addormentarsi davanti alla tv. Senza sapere che quella è la vita che ti sei cucita addosso, una coperta con la quale ripararti. Come quando si fa un viaggio e a mancarti è soprattutto il tragitto percorso per arrivare a destinazione. Le piccole cose. Ecco che cosa mi manca, l'apparente leggerezza delle piccole cose di tutti i giorni.


mercoledì 13 febbraio 2013

Cammino silenziosamente


Cammino per strada e non sento niente. Non vedo la gente che mi passa accanto, non scorgo i colori dell’inverno, non avverto il freddo pungente. Niente, mi avvolge il vuoto. L’unica cosa che sento è l’assenza di te. Di noi insieme. Di quello che non potrà mai essere. Di tutto ciò che non potrò mai insegnarti. Degli abbracci che mai potranno coccolarti. Delle carezze che mai ti sfioreranno. Delle mie braccia che non potranno mai cullarti.

Cammino silenziosamente per non fare rumore, per non lasciare traccia del mio passaggio. I miei passi si poggiano per terra con delicatezza. Non voglio che le persone mi vedano, che si soffermino sul mio sguardo. Che colgano la fatica che faccio a stare all’aria aperta. Il confine tra incubo e realtà è troppo sottile. Ad ogni passo rischio di precipitare.

lunedì 11 febbraio 2013

Note travolgenti...


Mi dicono guarda avanti. Ma io davanti a me non vedo niente.

Anche queste parole risuonano vuote, come se avessero un significato altro.

Le note di una canzone paralizzano le mie dita.

Troppo struggente, troppo per il mio cuore così indebolito.

Sono così stanca. Vorrei che il tempo mi concedesse una tregua. Come quando si è corso e ci si ferma per prendere fiato. Solo che il ticchettio dell’orologio non si arresta. Continua il suo oscillare crudele. E io non posso fare altro che rimanere sulla ruota e non perdere il giro.

Prima potevo fermarmi, mi mettevo nel mio angolino e stavo lì ad osservare il mondo che andava avanti. Quasi non ne facessi parte. Ero spettatrice. A volte incantata, altre volte spaventata. Ora invece sono dentro un turbine e non so come fermarlo. Vorrei urlare basta. Ma anche la voce resta smorzata dentro di me perché tanto so che non servirebbe a niente.

E intanto le note vanno avanti. La musica continua. La melodia procede e mi calpesta.

giovedì 7 febbraio 2013

Credevo che il tuo sorriso avrebbe messo la parola fine...



Questa lacrima esiste ed è pesante. Cade dal mio sguardo e si ferma sul volto. Resta lì a solcare i miei pensieri. Scivola con lentezza e ferisce il mio viso, che porterà per sempre i segni di tanta tristezza. Questa lacrima è pregna del vuoto che dilania il mio cuore. Un vuoto insopportabile. Ed eterno.
Il mio dolore è intatto. Ribolle in me e alle volte esplode con tanta furia da mozzare il fiato...Vivo senza sapere come si fa…Vado avanti ma vorrei che qualcuno mi desse un libretto di istruzioni. Ma in fondo so che l'unica che può fare qualcosa per guardare avanti sono io. Sono io che mi devo rialzare quando cado. Sono io che devo raccogliere i miei pensieri e indirizzarli verso qualcosa di positivo. E sono sempre io che devo scacciare i sensi di colpa che nascono ogni volta che penso al futuro. Solo io posso cicatrizzare le mie ferite.
Ma non è facile. La tua assenza è una presenza troppo rumorosa…

mercoledì 6 febbraio 2013

La nostra storia


Rimango incinta dopo mesi e mesi di tentativi. Dopo aver reso l’atto più bello un’unione quasi forzata per realizzare un sogno. Niente nuvole e lenzuola. Ma non ci importa perché amarsi significa anche questo. Sacrificare qualche cosa per realizzare un desiderio.

I ricordi delle visite, le lacrime versate e le ansie del cuore scompaiono quando sul test vedo le due lineette. La cosa più bella che io abbia mai visto. Il nostro piccolino è pronto a vivere con noi. Ho finalmente trovato il mio posto nel mondo. E così comincio la mia vita da futura mamma. Niente verdure crude, niente pesi da portare, niente affaticamenti. Mio marito non mi fa fare niente. Ed è un far niente meraviglioso. Cominciano le nausee e i giramenti di testa. La prima volta che rimetto lo chiamo con le lacrime agli occhi. Sono felice. Il mio piccolo c'è e si fa sentire. E ogni volta che corro in bagno sono "contenta". Non esco quasi di casa, le temperature estive non me lo permettono, ma non mi pesa. Con la mano sulla pancia posso affrontare qualunque cosa. Anche la noia, così dolce da mozzare il fiato.

Passa il tempo, sono coccolata e viziata. La pancia cresce e con lei i nostri progetti. Si comincia a parlare di vestitini, seggiolini, addirittura dell'asilo. Nessuna ombra può smorzare la nostra gioia. Discutiamo sui nomi. Se è un maschio siamo sicuri sarà Edoardo, se è una femmina abbiamo ancora qualche dubbio. Ma io sento che è un maschietto. È così è stato: il nostro Edoardo stava per arrivare. Mi fotografo la pancia, mi arrabbio perché non mi entrano più i pantaloni. Ma è un' arrabbiatura tenera, di quelle che le donne sfogano per farsi dire che con la pancia sono ancora più belle. Poi arriva il primo calcetto. Un brivido mi attraversa il petto e si conficca nel cuore. È lui, è il piedino del mio amore. Lo dico a mio marito e lui piange. Sempre alla stessa ora, come un appuntamento, si muove, cambia posizione e mi dice “Ciao mamma ci sono!”.

 
Poi arriva il 29 ottobre e in un attimo, il tempo di un respiro, la nostra vita si trasforma in un incubo. Il nostro sogno si spezza quando mi viene detto: “c'è un problemino”. Da lì comincia il nostro calvario. E' qui che la nostra esistenza viene tagliata in due. D'ora in poi ci saranno solo più un prima e un dopo.

Il 29 ottobre è il giorno della morfologica. Appuntamento alle 18. La notte prima non dormiamo. Non vedo l’ora di sapere il sesso. Non immagino che oltre a quello avrei saputo ben altro... Mi vesto, faccio la solita foto di rito davanti allo specchio e salgo in macchina, sempre attenta a non fare movimenti bruschi. In sala d’attesa sono agitata, ma non ho tempo di calmarmi perché la dottoressa ci chiama. Mi spoglio, per la prima volta senza vergogna. Vedo il piccolo, dorme. È un maschietto e io piango di gioia. E’ bellissimo. La manina sulla fronte, chiusa a pugno. La stessa che poi si avvolgerà alle mie dita. Poi sento il suo cuore, batte fortissimo. E il nostro con il suo. Poi vedo che la ginecologa insiste sul cuoricino, mi dico che è normale, ma dentro forse capisco che qualcosa non va. Per paura di sentire risposte, sto zitta. Mi rivesto. C'è silenzio, ma ancora una volta mi dico che è normale. Mi siedo, la dottoressa dice che il piccolo sta bene, i valori sono nella norma.... Ma “c'è un piccolo problema”. Quelle parole sono diventate il mio incubo. Ancora oggi mi risuonano dentro e mi tagliano a metà. Il piccolo ha un problema al cuore. Probabile Tetralogia di Fallot. Non so che cosa sia, non voglio saperlo.  Il mio amore sta bene e lei si è sbagliata. Ma purtroppo non è così e la mattina dopo abbiamo appuntamento in ospedale per approfondimenti.

Continua la discesa all’inferno. Non dormiamo e alle 8 siamo in ospedale. Altre ecografie confermano la malformazione. Anzi il quadro peggiora. Il piccolo Edoardo ha un Truncus, vive bene solo dentro di me e io avessi potuto l’avrei tenuto per sempre nel mio grembo. Faccio l’amniocentesi. Sono un sasso, mi muovo come se fossi un burattino. Non sento male. Niente. Il dolore è tutto nel mio cuore. Alle 13 visita dalla cardiologa che conferma la patologia. Appuntamento dopo una settimana per un’altra visita. Torniamo a casa con la morte dentro. Piango, mi dispero e mi arrabbio. Faccio anche una cosa terribile. Per due giorni non mi tocco la pancia, quasi io voglia abituarmi alla sua possibile assenza. Poi però sento che Edo ha bisogno del mio calore. Mi abbraccio la pancia e non la mollo più. I giorni trascorrono veloci, come se vivessi la vita di qualcun altro. La casa è sempre piena di gente. Non voglio stare da sola. Anche se sola non sono.

Si comincia a parlare di possibile interruzione. In tutto questo tempo non sono mai riuscita a pronunciare la parola aborto. Ancora adesso è come una lama che mi taglia in due. Giovedì 8 i medici confermano la malformazione. Una settimana dopo il nostro amore non c’è più. È un angioletto. Abbiamo scelto per lui: non abbiamo voluto vivesse una vita che noi non avremmo mai voluto vivere. Comincia così il lungo saluto. Lunedì 12 ho tutte le visite. Poi quelle terribili pastiglie da ingoiare che si mescolano alle mie lacrime, al mio strazio. Ad aiutarmi la mia famiglia e il sorriso buono di medici e personale. Mercoledì 14 il ricovero. Mi danno un letto. I miei movimenti sono meccanici. Mi spoglio e dopo un po' l’ostetrica mi mette la prima candeletta. L’incubo continua. E al dolore del cuore si unisce quello fisico. Le prime contrazioni, la flebo, l’epidurale in una stanza fredda, dove un’altra donna si sta preparando al parto. Non so nemmeno più come mi chiamo. Un’altra candeletta. Il dolore aumenta. Alle 15 comincia il travaglio. Alle 16.10 non nasce il nostro amore. Mio marito è con me, mi dà forza, mi stringe le mani, mi dice che sono bellissima. Che Edoardo è bellissimo. Davanti a me l’ostetrica, una ragazza dal cuore e dal sorriso dolcissimo. La stessa che dopo ore di lavoro prima di andare a riposare mi viene a salutare. Mi parla con tenerezza, mi dice di lasciarlo andare. Poi il silenzio. Rivivrei quel momento tutti i giorni, perché in quell’istante l’ho sentito vicino come non mai. Poi il raschiamento, l’anestesia totale. Non capisco più niente. Mi ritrovo a letto. I miei cari attorno. La mia pancia drammaticamente vuota. La notte mio marito mi stringe forte. Non chiudiamo occhio. Qualche complicazione dopo, arriva l’alba. Altre visite e controlli. La mia magnifica dottoressa si prende cura di me. Posso andare a casa. E solo ora mi rendo conto che inizia il vero calvario. Il vuoto che sento è indescrivibile. La mia pancia c’è ancora, l’istinto è sempre quello di accarezzarla. Ma ogni volta che lo faccio la realtà mi prende a schiaffi in faccia. Quando ci richiudiamo la porta alle spalle ci sentiamo smarriti. Persi. Vuoti. Incredibilmente soli. Da quel momento la parola che meglio ci descrive è VUOTO. Un vuoto che non so come colmare.

La mia storia è la storia di tante donne che hanno messo al mondo il loro bambino e non hanno potuto abbracciarlo. Stringerlo al petto e sentire il suo respiro fondersi con il proprio. Non hanno potuto sfiorarlo, accarezzarlo, dormire accanto a lui. La mia storia si intitola aborto terapeutico. Una contraddizione, un dramma che lascerà un segno per sempre. Uno strazio che apre un vuoto incolmabile nel cuore. La mia storia è quella di un abbraccio mancato. Di un passo verso la felicità cancellato da un alito di vento crudele. L’unica cosa che sento è la sua assenza. E ritorno a piangere sulle pance delle altre donne e torno a dover sopportare il fardello della mia così tristemente vuota. La mia pancia che prima dava vita, ora è piatta, morta, terribilmente sola. La vita mi ha preso in giro, mi ha dato e poi mi ha tolto. La vita mi ha preso a pugni. Ora è tempo di piangere. E’ tempo del saluto. Un saluto che non finirà mai.

 

martedì 5 febbraio 2013

Semplicemente me


 
La mia vita ha un prima e un dopo. E’ spaccata in due e ora mi ritrovo nel bel mezzo della seconda fase con un groviglio di emozioni difficile da districare. Sono una donna di 31 anni e questo blog nasce dalla mia passione per la scrittura e dalla mia voglia di capire che cosa si agita dentro di me. Che si tratti di gioia o di dolore. Perché mettere nero su bianco per me significa un po’ fare i conti con quello che sento. Rileggermi mi aiuta, alle volte mi fa male, ma mi fa guardare avanti. Mi serve per leggere tra le righe di emozioni che altrimenti rimarrebbero intrappolate dentro.

Il dopo di cui parlo è una forbice che ha tagliato in due la mia vita, facendole prendere una piega che mai avrei immaginato. Il tempo di un respiro e tutto è cambiato. Sono mamma, ma non nel modo in cui conoscono tutti.
Amo leggere e ascoltare, le parole per me hanno un peso fondamentale.

Il mio sarà un diario fatto di tutto e di niente. Frasi, racconti, opinioni, foto e tutto ciò che mi sentirò di tirare fuori. E per prima cosa parlerò di quel dopo che ha aperto un abisso con la vita che facevo fino a qualche mese fa.

Ecco la mia storia.